D’ora in poi ci si potrà preoccupare di meno quando qualcuno è fuori di sé. Certo detto questo modo potrebbe indurre l’inizio di una discussione kilometrica sull’argomento, ma Marina Weiler e alcuni suoi colleghi del dipartimento di neuroscienze della statunitense Università della Virginia, in uno studio appena pubblicato sulla Neuroscience & Biobehavioral Review, ci credono veramente anche perché è una cosa molto seria.  

L’attenzione dei ricercatori è stata attirata dal significativo incremento dell’empatia manifestato da soggetti che stavano sperimentando esperienze di distacco dal proprio corpo. Uno stato di dissoluzione dell’io, indotto da cause molteplici, come le esperienze di pre-morte o l’uso di sostanze allucinogene, che spesso muta radicalmente il proprio punto di vista sul mondo e sul posto che ognuno vi occupa. “La separazione dal corpo fisico non di rado conduce a un senso di interconnessione con la vita nella sua interezza e a una più profonda connessione emotiva con gli altri, influenzando le relazioni personali e l’armonia sociale”, scrivono i ricercatori d’Oltreoceano.

Le esperienze di distacco dal corpo possono infatti sembrare più vere della realtà stessa, e più della metà dei soggetti studiati ha definito in seguito i suoi rapporti con gli altri come più rilassati e pacifici. Alcuni sono andati oltre, definendosi più spirituali e più convinti della possibilità di una vita dopo la morte. In effetti ci sono persone che hanno vissuto questo tipo di esperienza. Insomma sono andati di là e poi sono ritornati. Si potrebbero fare tantissimi esempi in merito e probabilmente avremo modo in futuro di approfondire meglio l’argomento.

Marina Weiler conclude dicendo che al momento non è chiaro cosa accada nel cervello quando si producono simili cambiamenti nella percezione di sé e degli altri, ma scoprirlo potrebbe aprire la strada per rinforzare gli effetti benefici dell’indebolimento del sé durante un’epoca particolarmente conflittuale come quella in corso (e la maggior parte delle altre che l’hanno preceduta). Peccato che il problema sarà farlo capire alla gente comune ormai abituata dai social network a trasformare in narrazione epica anche quelli che una volta altro che non erano che i rumori di fondo della quotidianità. A tale proposito vi suggeriamo di guardare il film bellissimo dal titolo: Dragonfly, in cui l’argomento è spiegato molto bene e può esserci d’aiuto per avere una visione d’insieme più ampia.

La storia è quella di una coraggiosa oncologa pediatrica che muore in un incidente sull’autobus in cui viaggiava in Venezuela, per portare la sua assistenza specializzata ai bambini delle popolazioni più povere. Il suo corpo non viene ritrovato. Il marito medico, era contrario alla sua partenza anche per via della gravidanza in corso. Cercando di convivere con il dolore, entra in contatto con i bambini pazienti nel reparto oncologia pediatrica della moglie.

Loro gli raccontano di esperienze di premorte in cui la dottoressa parla loro proprio di lui e riempiono le loro stanze d’ospedale di disegni raffiguranti una specie di croce ondulata. L’uomo ne discute con una suora che gli parla di fede. Lui capisce che sua moglie sta cercando di contattarlo per fargli capire qualcosa di importante.

Guardando le ultime foto inviategli dalla moglie, che la ritraevano vicina ad una cascata, parte senza indugi alla ricerca del villaggio vicino al quale avvenne l’incidente in cui la moglie perse la vita. Una volta giunto sul posto, la scoperta finale sarà assolutamente sconvolgente: la moglie era stata trovata morta, dopo l’incidente, dagli abitanti del villaggio in cui lei aveva prestato aiuto, e grazie al loro aiutò la bambina che portava in grembo, seppur nata prematura, è viva e custodita in una delle loro capanne, in quanto, come dice il capovillaggio, “non abbiamo salvato il suo corpo ma la sua anima”.

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