Oggi vi vogliamo parlare di un film, che tra l’inizio del millennio è tutto da riscoprire e sicuramente occupa un posto di rilevo. L’inventore di favole, titolo italiano del film Shattered Glass diretto nel 2003 da Billy Ray e coprodotto da Tom Cruise.
L’epoca del citizen journalism non era ancora arrivata, ma la morale della pellicola è proprio che il “tutti giornalisti”, grazie ai social media, equivale al nessuno è giornalista. Proprio come insegna la vicenda del protagonista del film e della storia vera da cui è tratto, un caso da manuale di manipolazione della realtà operata da molti sedicenti professionisti dell’informazione, e non solo negli Stati Uniti. Stephen Glass, interpretato da Hayden Christensen, nel 1998 era l’orgoglioso 26enne che, così giovane, scriveva i suoi articoli sul New Republic, la rivista di bordo dell’Air Force One, e che in una scena del film fa capire di avere scoperto la vera falla del giornalismo, anche quello professionale: in ogni articolo c’è almeno un dettaglio sul quale l’unica fonte è quanto il giornalista ha visto personalmente. Ed è proprio lì che si inserivano le manipolazioni degli articoli di Glass, che si scoprirono clamorosamente inventati. Quello con cui Glass in quell’anno si procurò infine il licenziamento si intitolava “Hack Heaven”, “Il paradiso degli hacker”, e raccontava di un certo Ian Restil, un 15enne terribile che si voleva far credere che fosse stato assunto da un’azienda californiana di software, la Jukt Micronics, per metterne al sicuro i sistemi informatici in cui era riuscito a inserirsi in precedenza lo stesso Restil, pubblicando sul sito dell’azienda gli stipendi di tutti i dipendenti e, per non farsi mancare nulla, più di una dozzina di foto di donne nude.
L’arrivo di un nuovo direttore, Chuck Lane, interpretato da Peter Sarsgaard (che vinse nel 2004 il Kansas City Film Critics Award come attore non protagonista), rappresentò la distruzione della carriera di Glass. “Il bieco balordo bimbo bionico vi ha beffato bamboli”. Secondo Glass queste erano le parole con cui il diabolico Ian Restil si sarebbe presentato sui server della Jukt Micronics. Azienda che tuttavia, scopre Lane, ha un solo numero di telefono a cui non risponde mai nessuno. Il direttore non si dà per vinto, ma dopo tanto insistere qualcuno alza la cornetta, solo per dire che non tollererà altre azioni di disturbo come quella. “Volevo solo verificare qualche informazione”, è costretto a giustificarsi Lane, con quello che si scoprirà essere il fratello di Stephen Glass, che aveva chiesto una mano in famiglia, del tutto inutile, per evitare che crollasse il suo castello di menzogne.
In quella frase di Chuck Lane al telefono c’è l’essenza del giornalismo, esattamente come nel sorriso sarcastico e nei salti di gioia di Rosario Dawson, l’occhialuta Andie Fox, giornalista di una testata concorrente a cui non sembra vero che sia stato smascherato il presunto fuoriclasse della redazione accanto. Urgerebbe un sequel di un simile film, che un quarto di secolo dopo non potrebbe che far bene a una riflessione sui confini sempre più labili tra fantasia e realtà dell’era virtuale allora agli albori.